di Stefania Bonaldo
Spesso mi capita di trovare il nome di Carl Gustav Jung citato in spazi che non trattano prettamente di Psicologia Analitica (come potrebbe essere intenso il mio intervento in questo spazio) e che non sono quindi “del settore”, ma che si interessano di altri argomenti, generalmente legati all’uomo e al suo modo di concepire il mondo. L’eterno dramma, e al contempo dote di Jung, è il suo essere profondamente umano. Un personaggio che ha scandagliato così minuziosamente il profondo da non risultare estraneo ad alcun campo, ma che proprio per questo rischia di essere interpretato a favore della teoria che di volta in volta lo nomina.
Ciò che rende così universalmente fruibili i messaggi e i contenuti di Jung è l’idea che l’essere umano ha utilizzato, fin dall’origine dei tempi e della vita (sia filogeneticamente che ontologicamente) delle strutture comuni per indagare il mondo e per descriverlo. Queste strutture comuni sono state da Jung prontamente chiamate “Archetipi”, un termine a cui siamo ormai abituati, sebbene siano in pochi in grado di darne una definizione storicamente corretta.
Partiamo dall’inizio: cosa si intende per Archetipo?
Secondo la teoria di C.G.Jung gli archetipi sono agglomerati, forme prime di pensiero in grado di condensare la libido (intesa come energia vitale) attraverso nessi semantici e fenomenologicamente associati a costruire il Simbolo, linguaggio dell’inconscio, immagine di uno dei possibili mondi esperiti e strumento condiviso dalla specie. Detto altrimenti, sebbene la semplificazione rischi sempre la banalizzazione, l’Archetipo può essere inteso come un enorme calderone di raccolta di potenziali esperienze simili, che possono prendere forma attraverso l’Immagine archetipica, che ne è sempre simbolo. Queste strutture generali ci aiutano nella definizione della realtà (sia esterna che interna) in cui l’uomo deve sopravvivere. Citando Robert H. Hopcke:
“(…) di questi modelli, che formano gli archetipi dell’inconscio collettivo, alcuni vengono sperimentati in forma di tipi individuali, come ad esempio la figura del Vecchio Saggio, dello Stregone, della Fanciulla, dell’Eterno Bambino oppure di divinità maschili e femminili, di demoni e di angeli della mitologia e della teologia. Tuttavia alcuni archetipi, anziché comparire in forma di figure, rappresentano piuttosto situazioni ed esperienze tipiche: la crescita, l’esperienza della totalità, il sentirsi lacerati da un conflitto irrisolvibile, la perdita dell’innocenza, il raggiungimento dell’unione estatica con Dio…”.
Il punto in comune è quindi l’universalismo degli archetipi come esperienza tipica e narrabile attraverso le immagini simboliche (chiamate immagini archetipiche). C’è oggi una gran confusione nell’utilizzo dei due termini e molto spesso chi parla di archetipi ignora di star parlando in realtà di immagini archetipiche. E che cambia, direte voi? Quello che cambia è che nel momento in cui si utilizza un termine, nato in un determinato contesto, lo si fa dando per scontato che tutti capiscano la stessa cosa. Ed ecco perché ritengo che una specifica di questo tipo sia utile a sgomberare il campo da fraintendimenti futuri. Tornando agli archetipi, la caratteristica comune della specie umana è la sua capacità di simbolizzare e trasformare così esperienze in linguaggi potenti, efficaci, condivisi. Ad esempio l’Astrologia, come l’Alchimia, per Jung sono proprio frutto proprio di questa umana dote che trasforma le esperienze in simboli ed accanto alle figure archetipiche dei pianeti, ad esempio, abbiamo il correlato delle esperienze associate. Si verrà così a formare un vero e proprio immaginario astrologico ed alchemico.
Scrive infatti, in un passo citato da Marie-Louise von Franz, che:
“Il cielo stellato è infatti il libro aperto della proiezione cosmica, del riflesso dei mitologemi, degli archetipi appunto. In questa visione astrologia e alchimia, le due antiche rappresentanti della psicologia dell’inconscio collettivo, si danno la mano” (Jung, OC VIII, pag.213).
Per meglio comprendere porto un esempio concreto: Saturno, astronomicamente è, come sappiamo tutti, un pianeta del sistema solare. E’ quindi un corpo fisico ben localizzabile. Se ci spostiamo sul piano del simbolo, invece, astrologicamente può veicolare, nei suoi significati, caratteristiche del Vecchio Saggio come anche quella dell’Archetipo della maturità.
L’Archetipo dell’Ombra
Tra tutti gli Archetipi il più citato, e forse inflazionato, nella ricerca esistenziale umana è l’Ombra, posto sullo stesso piano di Dio, ma posizionato sull’altro lato, dall’altra parte: possiamo dire che l’Ombra è l’aspetto polare della totalità, del Sé, di Dio. Proprio come accade per i segni zodiacali, posti a coppie uno di fronte all’altro, anche questi due archetipi hanno una dinamica di comunicazione: essendo l’uno specchio dell’altro, comunicano per definizione.
La mia disciplina interiore, tesa a cercare un ordine nei pensieri, quando devo spiegare a me stessa un concetto mi porta a partire dall’etimologia, dalle radici, dalla definizione del termine.
Quindi, partendo da una delle definizioni più gettonate, otteniamo:
“Ombra: oscurità più o meno intensa prodotta in una regione dello spazio da un corpo esposto alla luce.”
Se ci pensiamo, per osservare l’ombra prodotta da noi stessi fisicamente, è necessario volgere le spalle alla fonte di luce e rivolgere lo sguardo verso la proiezione da sé generata.
Per me questa è un’immagine bellissima.
Per conoscere la propria Ombra è necessario osservarla volgendosi ad essa e comprendere che, alla luce della coscienza, assume la forma di una nostra proiezione.
Le parti di noi che non riconosciamo o non vogliamo, per disparati motivi, vedere e accettare, le proiettiamo all’esterno con l’unico scopo di poterle “vedere” e quindi illusoriamente (perché proiezioni inconsapevoli) controllare e definire.
Ricordando ciò che scrisse Paracelso, è infatti poco probabile riuscire a trasformare l’immagine di sé allo specchio senza agire prima sul corpo fisico che la produce. E vale lo stesso per l’Ombra, realtà nella percezione, ma non-concreta nella possibilità di interazione e modifica.
L’Ombra, il nostro lato non-visto, è anche la parte di noi non riconosciuta, come se una luce, con i suoi dettami morali ed etici, sia collettivi che individuali, illuminasse parte del nostro “essere” e ne definisse, come effetto collaterale, anche le parti oscure, proiettate fuori e buttate nello specchio in cui gli altri ci riflettono.
E se invece di considerare e giudicare la luce come il bene e l’ombra come il male ci attenessimo a considerare quest’ultima appunto come ombra di qualcosa?
Potremmo forse facilmente convenire con Jung che l’Ombra è anche la fonte del mondo creativo della Persona che la produce. Nell’Ombra risiedono tutte le proiezioni inconsce e con esse anche le fonti più potenti di energia.
Nell’Ombra risiede tutto il potenziale che ci rappresenta perché è ciò che di noi ancora non sappiamo o tacciamo.
Limiti, paure, desideri, convinzioni.
Parliamoci chiaro.
Non sto dicendo che sia semplice dato che si tratta, fondamentalmente, di ciò su cui non abbiamo controllo e di cui, quindi, temiamo l’invasione e il dominio. Eppure, sebbene difficilmente controllabile proprio come accade con un cavallo dalle briglie sciolte, è generatrice dell’espressività più immediata e ricca, emblema della vita che vive.
Nello specifico si parla di Ombra personale che ha sì radici nell’archetipo collettivo dell’Ombra, ma si arricchisce per ognuno di elementi personali (ed infatti ogni Archetipo, filtrato dalla personalità, a livello individuale “si trasforma” e agglomera in un complesso arricchito degli elementi personali).
Che cosa vuoi fartene?
Il complesso dell’Ombra è utile per ritrovare la propria totalità, nell’integrazione degli opposti che in noi faticano a convivere.
“L’Ombra è un problema morale che mette alla prova l’intera struttura dell’Io; nessuno infatti può prendere coscienza dell’Ombra senza una notevole applicazione di risolutezza morale. Ciò significa riconoscere come realmente presenti gli aspetti oscuri della personalità: atto che costituisce la base indispensabile di qualsiasi forma di conoscenza di sé, e incontra perciò una notevole resistenza. Da un attento studio dei tratti di carattere oscuri o delle qualità inferiori che costituiscono l’Ombra, risulta che essi possiedono una natura emotiva, una certa autonomia, e di conseguenza, sono di tipo ossessivo, o meglio, “possessivo”. L’emozione infatti non è un’attività, ma un accadimento che investe l’individuo. A questo livello più basso, con le sue emozioni, appena o niente affatto controllate, l’individuo si comporta più o meno come un primitivo, non soltanto vittima involontaria dei propri affetti, ma per di più profondamente incapace di giudizio morale.” (Jung, Aion, l’Ombra stralcio).
Ed è proprio questa dissonanza con la moralità che aleggia in ognuno di noi un Saturno, il principio della Legge, irremovibile dal suo trono faticosamente costruito, che rifiuta di vedere il potere distruttivo che lo ha animato prima di divenire Legge.
Sono la moralità e il giudizio che non ci permettono di osservare il potere nascosto di ciò che non conosciamo di noi e che non vogliamo faccia parte della nostra “realtà”. Ed in fondo, si sa, il processo di individuazione è un’opera contro la collettività.
C’è anche un’altra definizione di Ombra di C.G.Jung che io amo molto, intesa come:
“la somma di tutte le disposizioni psichiche personali e collettive che, a causa della loro incompatibilità con la forma di vita scelta consciamente, non sono vissute e si fondono in una personalità parziale relativamente autonoma con tendenze inconsce contrarie. Nei riguardi della coscienza l’Ombra ha una funzione compensatoria e la sua azione può quindi anche essere positiva.” (nota a Jung, “Simboli della trasformazione”)
L’ombra viene infatti definita, sempre nel dizionario da cui ho attinto a caso, anche come “inseparabile dal corpo che la produce”, “legata all’idea di prossimità e protezione”. Non è quindi solo qualcosa di negativo perché sconosciuto, ma è dotato di immenso potere libidico: è un potere d’Essere.
Pensiamoci: è poetico. Ci seguirà sempre, nel suo compito di compensare la coscienza, la sua forma e il suo proiettarsi; sarà tutto ciò che la coscienza non riconosce. E diventa anche protettiva: alcune difese sono nate per tutelarci e andandole a scandagliare non sempre possiamo essere certi di saper reggere l’ondata dell’Inconscio, il suo potere travolgente. Ed è per questo che sono convinta che il lavoro interiore sia qualcosa da fare sotto la guida di qualcuno esperto, in grado di farci capire i nostri limiti e cosa è meglio lasciar quieto se non si è certi di sostenere la disgregazione di parti di sé. In un’epoca in cui molti si improvvisano facilitatori, mi rendo conto di scrivere qualcosa contro-corrente.
Ma non c’è da aver paura.
Questo non deve separare l’esploratore dalla sua grande avventura.
Questo timore, che sia radicato o meno, ci invita a guardare dentro di noi anche per cercare di comprendere se tante volte non si tratti di angoscia o molto spesso ansia, ricordo di vecchi terrori, un tempo sicuramente più minacciosi di ora. Ci aiuta a comprendere dove siamo fallaci, a giudicarci un po’ meno o un po’ di più, se riusciamo ad essere consapevoli che a proiettare quell’ombra è sempre un corpo fisico il cui fine è la sopravvivenza e ognuno fa e ha fatto quel che è stato possibile.
E’ importante riconoscere che dietro a sé c’è un preciso Sole di valori che sta illuminando e la proiezione dipenderà da questo enorme carico numinoso. Non ci si può allontanare dal proprio corpo fisico, come non ci si può staccare dalla propria Ombra, ma possiamo scegliere che posizione assumere per intravederla al meglio.
Biologicamente il nostro occhio all’oscurità inizialmente non scorge forme, lentamente però si attivano cellule specifiche che riescono a sfruttare risorse minime di luce per scorgere le forme nel buio.
Analogamente possiamo pensarci rivolti alla nostra Ombra personale e per riuscire a scorgerne la forma, e a non temerla nelle tenebre dell’inconsapevolezza, necessitiamo di rimanere ad osservarla anche se questa inizialmente potrà sembrarci terribile e inguardabile, e scorgerne le forme, abituandoci al buio e allo sconosciuto che dentro di noi alberga, abituandoci poi progressivamente alla luce.
[Foto di copertina by Geran de Klerk on Unsplash]
Stefania Bonaldo, psicologa, specializzanda in psicoterapia analitica. Quasi al termine dei suoi studi in ingegneria civile, decide di cambiare completamente la sua vita affascinata dal mondo della psichiatria e inizia gli studi in psicologia. Nei suoi trascorsi in Brasile, tra gli Indios Pataxò, i terreiros del Candomblé e il meraviglioso e difficile percorso individuale che fu la sua gravidanza, numerose sincronicità la portarono a conoscere più da vicino il pensiero di Carl Gustav Jung. Si laurea a Padova in Psicologia clinico-dinamica dove sostiene sia la tesi triennale che quella magistrale da una prospettiva psico-antropologica dopo numerose ricerche sul campo in Brasile. Qui inizia un master in antropologia sociale di genere presso la Universidade Federal Fluminense di Rio de Janeiro. La convivenza degli opposti tra razionalismo scientifico e vissuti personali la animano tutt’oggi nella comprensione umana di quello che Jung denomina “inconscio collettivo” e la sua enorme potenzialità di trasformazione nella relazione terapeutica.
La dottoressa Stefania Bonaldo a fine Febbraio 2021 è prematuramente venuta mancare all’affetto dei suoi cari e dei tanti amici che ancora la amano al di là del tempo e dello spazio. Resta traccia del suo passaggio terrestre e della sua profonda vocazione terapeutica e sensibilità umana negli scritti che ha voluto donare al progetto di Oroscopodelmese.it
Cara Stefania,
cara Sorella,
in una degli ultimi scambi epistolari con cui ormai eravamo costrette a comunicare per via dei mille impegni di questa vita frenetica, mi avevi scritto un messaggio che voglio riportare qui, a testimonianza di quanto profonda fosse la tua Anima e vocazione:
“Noi non siamo Dio…. Non riusciamo a concepire le coesistenze numinose anche se ci sforziamo con mille discorsi dall’inizio del tempo. Non ci é fattibile perché la scissione aiuta all’adattamento anche se poi è un’arma a doppio taglio. Se tu vivessi bene la morte come rinascita non ne avresti paura (tu in senso generale). In realtà noi non siamo solo Psiche… Il corpo è la sua materializzazione e quindi se muore il corpo temiamo di non sopportare la fusione con l’inconscio. Magari fosse facile pensare che siamo tutti parte dello stesso organismo etereo che si chiama Anima o Dio. Paradossalmente non avremmo legami e non necessiteremmo dell’altro né avremmo desiderio di amarlo né di distruggerlo. Quando ho sempre pensato di esserlo io la disperata, e anzi lo sento molto ancora, in realtà sono stata d’aiuto per altri. Noi vorremmo che la morte fosse rinascita. Ma in realtà non lo è…. Aiuta la rinascita ad esistere”.
A presto ri-vederci, sorella d’Anima
Irene